Lucio Dalla: “E sognò la libertà”

Un contributo per Tracce di Walter Muto

 Ricevo al volo la notizia e non ho neanche tempo di metabolizzare, che mi ritrovo a buttare giù, altrettanto al volo, queste brevi note. È morto Lucio Dalla, senza preavviso, all’improvviso, veloce come lo scat con cui amava intervallare il suo cantato, canticchiando sillabe immaginarie alla maniera del jazz. Non ho il tempo – nè la voglia – di fare ricerche e scrivere quello che scriveranno tutti, enumerando successi, ricordando l’ultima apparizione televisiva di qualche giorno fa a Sanremo, ricordando che fra solo tre giorni avrebbe festeggiato il 69esimo compleanno. Nè sono stato abbastanza in contatto con lui – come per esempio l’amico Davide Rondoni – da poterne tratteggiare un ricordo personale. E allora parlerò della musica, che è sempre stata tutta la sua vita, sul filo del ricordo.
Lucio Dalla era un artista a tutto tondo, pianista, autore delle sue canzoni, clarinettista, musicista completo. Questo sì, bisogna dirlo: ha scritto bellissime canzoni, attraversando mezzo secolo in cui molte cose sono cambiate molto velocemente. E lui stesso ha sperimentato un numero incredibile di trasformazioni, gettandosi via via nel genere musicale che lo interessava di più e rendendolo il territorio in cui cacciare, andare a scovare le sue incredibili e bellissime melodie. La sua fervida inventiva lo ha reso autore di eccezionale spessore, capace di coniugare parole e musica in un’alchimia le cui regole sono conosciute solo dai grandissimi. La sua voce, pur non educata – un po’ come l’altro grande Lucio, Battisti – e la sua gestualità lievemente animalesca gli procurarono non poche critiche e facili caricature. La sua voce aveva però caratteristiche straordinarie, difficili da rintracciare insieme: un timbro riconoscibile come un marchio di fabbrica; grande potenza; ampissima estensione; espressività ed agilità fuori dal comune.
Ebbi la fortuna di intervistarlo, proprio per Tracce, con Massimo Bernardini, molti anni fa. Il ricordo si smarrisce un po’, ma l’impressione che rimane è quella di un uomo che amava la bellezza, e che tanta ne ha creata.
Spirito libero e dalla spiccata creatività, ha scandagliato la forma canzone in tutti i suoi aspetti, talvolta trovandosi stretto nell’alternanza strofa-ritornello e sperimentando nuove vie. La sua canzone che mi ha colpito di più in assoluto è stata ed è ancora Henna, dall’album omonimo (da riscoprire), che iniziò a scrivere su una spiaggia del Sud Italia dopo il passaggio a volo radente di due aerei militari diretti verso Est, ai tempi della guerra in Bosnia. «Adesso basta sangue – non vedi: non stiamo nemmeno più in piedi, un po’ di pietà». E partendo da scenari di guerra e futuri incerti, la canzone si snoda in una melodia continuamente variata, ampliata, rappresa e poi espansa di nuovo, fino ad un breve accenno di ritornello, che si ripresenta e chiude la canzone: «Vedi, io credo che l’amore – è l’amore che ci salverà».
Ora me lo immagino seduto su una sdraio, fuori dalla casa in riva al mare, con la sua Maria. E non riesce ad uscirmi dalla testa quello straordinario refrain finale: «Vengo da te, Maria – vengo da te, Maria…».

 

Per approfondire:

Intervista da Tracce, aprile 1994 

La casa in riva al mare 

Henna

Cosa sarà

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