Perché un movimento come il nostro insiste così tanto sull’io, e perché solo adesso questa insistenza?
Mi fai reagire un po’ immediatamente quando mi dici «solo adesso»: perché l’inizio del movimento era dominato dal problema della persona! E la persona è un singolo, la persona è un singolo che dice «io». Soltanto noi abbiamo detto, per tanto tempo – un po’ preoccupati di esagerare -, che l’io è l’autocoscienza del cosmo, cioè che tutta la realtà è fatta per l’uomo. Creando il mondo, Dio, nella concezione cristiana, aveva come scopo l’affermazione della persona. Per questo adesso diciamo che il cosmo intero raggiunge al suo acme, alla sua più alta cima, l’autocoscienza; è come una piramide sulla cui cima scoppia l’autocoscienza: la coscienza di sé, nella natura, in tutta la natura del creato, è l’io. Perciò, avrebbe significato il mondo, il cosmo, anche se ci fosse un solo io. L’autocoscienza del cosmo è come la sfida di Dio: «Ho creato perché ci fosse una creatura che prende coscienza del fatto che io sono tutto, faccio tutto, ho fatto tutto». Infatti, la religiosità è il cuore dell’uomo, il cuore dell’io, e si esplicita come desiderio di felicità e come ragione che determina tutte le definizioni che diamo alle parole. Ragione è coscienza della realtà secondo la totalità dei suoi fattori. E la moralità è il nesso tra l’azione, un’azione dell’io, un’azione cosciente, e la totalità del creato, l’ordine. Sono due definizioni fondamentali per la nostra concezione dell’io. Comunque, i primi anni, la prima decina d’anni, prima che il ’68 portasse una grande sommossa mettendo a tema affannosamente non tanto l’io, quanto la sua azione nella società, la conquista del potere (perché la conquista della scienza era secondaria rispetto a quella del potere così come veniva concepito allora), prima del ’68, dicevo, il tema con cui iniziavo sempre gli Esercizi, i Ritiri, era costituito da una frase di Gesù. Dapprima eravamo poche decine, poi, dopo sette anni, abbiamo passato la cifra di cento nella prima «Tre giorni» fatta a Gazzada con monsignor Pignedoli. Dopo, la cosa è un po’ esplosa, ma senza che nessuno se ne accorgesse e, in secondo luogo, senza che nessuno lo capisse né se ne rendesse ben conto; in terzo luogo, finalmente prendendo coscienza che le cose avvenivano perché non erano nostre: non eravamo noi capaci di prevedere una simile ricchezza di recupero del valore dell’umano, della persona. La frase di Gesù che allora dicevo tantissime volte, come un refrain continuo, dal ’68 in poi è un po’ diminuita, ma adesso l’abbiamo ripresa, perché l’esito della politica o della «rivoluzione» ha fatto vedere le estreme conseguenze di una mancanza di coscienza, di autocoscienza dell’io. Se l’io è l’autocoscienza del cosmo, il delitto più grande che l’io commette è quello di non conoscere se stesso, mentre invece deve essere cosciente di sé. Gesù diceva: «Ma che importa se prendete tutto il mondo e perdete voi stessi?». Anzi, Lui dice letteralmente: «Che importa all’uomo se prende tutto il mondo e perde se stesso? O che darà l’uomo in cambio di sé?». Sono cose che si richiamano l’un l’altra, perché se l’io è la coscienza del cosmo, di tutto, il rapporto col Creatore, con l’Infinito, con ciò che non è misurabile, origine e destino di tutto, è nell’io che si gioca, nella presa di coscienza che l’io ha di sé. Questo spiega perché il nostro dire, il contenuto della nostra conversazione, è sempre centrato sull’umanità, sul valore umano delle cose; e il valore umano non è dell’«umanità», ma del singolo, della persona.
Giussani Luigi, Accettiamo la vita perché tendiamo alla felicità, Litterae Communionis-Tracce, 1998