L’appartenenza a questo popolo è la mia identità. Chi fece questa osservazione fu uno di noi: ma entrò nel movimento nel ’69 per un certo gruppo di amici che, in quello stesso anno, se ne andò tutto; allora percepì l’oggettività del fatto del popolo di Dio, dell’unità che era indipendente anche dal gruppo di amici che lo aveva portato in Cl. La sua identità era appartenere al popolo.
Per questa autocoscienza si deve pregare lo Spirito Santo.
Questa identità ha la coscienza di se stessa e di appartenere al popolo; è tutto quanto si deve chiedere, perché qui comincia la maturità che ci permette una creatività. Questa coscienza è l’urgenza non solo per il movimento in università, ma per tutti. Tanti adulti non lo capiscono più. Molti sono bravissimi, ma non capiscono il passaggio di coscienza del fatto cristiano.
La capiscono a cinquanta-sessant’anni, confusamente, quando la parola «unità» non trova più ostacolo nelle opinioni, perché ormai non c’è più niente davanti alla vita. Allora si calano con povertà di spirito nell’unità come mistero, senza però capire che cos’è.
In ogni modo, nella situazione in cui siamo incarnati con una autentica maturità possiamo anche non essere competenti in nulla, ma ugualmente noi “travolgeremo”. Nessuno può giudicare quello che uno è adesso dal rendimento che adesso ha, perché ciò che qui è in gioco è una storia e la storia è il prodursi del significato nella realtà temporale per il soggetto, cioè del significato vivente che si comunica. Il mio significato vivente è l’unità che ho con voi, il Mistero che c’è tra noi. Sono altrimenti un fuscello inutile staccato dall’albero. Il popolo di Dio con la sua storia è realmente un’esperienza di libertà, di consistenza della propria persona, indipendentemente da quello che si è capaci di fare e di dire, perché tutta la nostra consistenza è questa Presenza il cui volto è il popolo di Dio, l’unità dei credenti che tende a diventare corpo presente nella situazione (in università, o nel movimento, come nell’intera Chiesa).