Fino a quando l’oggetto è oscuro ciascuno può immaginare quel che vuole e può determinarsi nel suo rapporto con quell’oggetto come gli pare e piace. Pensate all’esperienza amorosa: uno sta desiderando di amare ed essere amato, ma fin quando il volto è sconosciuto che cosa facciamo? Quello che ci pare e piace. È soltanto quando il volto compare che introduce realmente una possibilità di calamitare l’io. Perché io so che desidero l’infinito, che questo infinito c’è perchè ho sempre nostalgia di lui – come diceva Lagerkvist –, ma ogni giorno afferro il particolare, vado dietro a qualunque oggetto che poi mi lascia insoddisfatto. E questo è il destino dell’uomo, a meno che capiti quel che ipotizza Wittgenstein: «Hai bisogno di redenzione, altrimenti ti perdi […]. Occorre che entri una luce, per così dire, attraverso il soffitto, il tetto sotto cui lavoro e sopra cui non voglio salire. […] Questo tendere all’assoluto, che fa sembrare troppo meschina qualsiasi felicità terrena… mi sembra stupendo, sublime, ma io fisso il mio sguardo nelle cose terrene: a meno che “Dio” non mi visiti».
Julián Carrón, Rimini 2011