Ho studiato per molti anni i movimenti collettivi da giovane, prima con Charles Tilly, al quale si deve la riflessione teorica più acuta sui movimenti collettivi e sulla conseguente trasformazione della democrazia che ne può conseguire, e poi con Leopold Haimson, grande studioso del menscevismo in Russia e degli scioperi nel primo Novecento – i nostri libri rimangono a ricordare uno sforzo tanto noto all’estero quanto negletto in Italia – per stupirmi oggi della conformazione specialissima, ma in fondo abbastanza comune, che hanno assunto i movimenti collettivi che hanno per oggetto la Tav.
Tutto inizia molti anni or sono in un plesso geografico e storico molto particolare: la Val di Susa, dove da secoli viveva una popolazione contadina che si è trasformata in una popolazione pluriclassista che ha, tuttavia, al di là delle differenze di reddito e di status, una comunanza antropologica: la fede nella tradizione locale come identità e come riconoscimento nel dispiegarsi della vita. Tratto trans-partitico e trans-politico, non pre-politico, intendiamoci, perché è la politica nelle sue forme cangianti a dare a questa identità le coloriture che spesso assume allorquando eventi storici la fanno risorgere. La lotta contro i piemontesi invasori fu uno degli stilemi retorici di movimento e di aggregazione che coinvolse le valli un paio di secoli or sono con atti di inaudita ferocia da entrambe le parti e questa è una storia che si ricorda e si rimembra. Le valli valdesi, del resto, non sono lontane, e anche lì la violenza repressiva e difensiva scorse a fiumi.
La tradizione legittima la mobilitazione di massa e anche la violenza. Questo è storicamente indubbio. Pochi ricordano, per esempio, ciò che si dice in una bella opera del Centro Diocesano della Valle di Susa, ossia che l’editto di Nantes, firmato nel 1598, pose fine alle lotte religiose tra riformatori e cattolici, accordando la libertà di culto per i riformati. Tuttavia, la sua revoca a opera di re Luigi XIV, nel 1685 riportò la violenza nelle valli: vennero espulsi i ministri del culto, vietate le pubbliche adunanze e rasi al suolo – rasi al suolo! – i templi. I riformati del Delfinato e quelli provenienti dai territori del duca di Savoia vennero costretti all’esilio dalle loro terre a Ginevra e Prangins, sul Lemano, ma nel 1688 decisero di tentare il rientro: guidati da Henri Arnaud ripercorsero il cammino a ritroso, rientrando armati in patria.
Le alterne vicende legate alla Guerra di successione spagnola portarono alla vittoria piemontese e alla stipula del Trattato di Utrecht del 1713, con il quale l’alta Valle di Susa fu riunita alla bassa, entrando così a far parte del ducato di Savoia e poi del regno di Sardegna. L’annessione dell’alta Valle di Susa non fu però indolore: gran parte delle popolazioni locali contrastarono più o meno apertamente il passaggio dalla Francia al regno sabaudo, spingendo i francesi a tentare più volte la riconquista dei territori perduti. Lo scontro più significativo si ebbe nel corso della guerra di successione austriaca (1742-1748) quando nel 1747, nella memorabile battaglia dell’Assietta, 7.400 soldati piemontesi, dopo un’epica resistenza, riuscirono ad avere la meglio su 20.000 uomini dell’esercito francese riportando una storica vittoria. Insomma, una terra dove si è combattuto violentemente da secoli.