Leggo solo ora dal web perché Tracce mi arriva sempre in ritardo, ma mi pare interessante, anche se non attualissimo, il giudizio di Vittadini sul nuovo governo che comunica le sue decisioni quando le ha già prese e in modo discreto , come fanno tutto coloro che cercano di lavorare seriamente pur in mezzo alla tempesta di un mare di difficoltà non ignorate:
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l’impressione di Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, è netta: «Meno male. Perché siamo come nel 1946: c’è un Paese da far ripartire».
Che giudizio hai su questa soluzione?
Va incontro all’urgenza più grande che abbiamo: far ripartire il lavoro della politica, cioè il servizio del bene comune. È la risposta alla necessità di ricominciare a mettere mano ai bisogni del Paese. Se la politica ha un suo senso, è a partire da qui. Dal bisogno di dare una guida all’Italia sul piano istituzionale e su quello economico. In un momento come questo, inevitabilmente, la collaborazione iniziata spingerà verso il superamento delle ideologie.
Appunto, «inevitabilmente»: l’impressione è che ci siamo arrivati per un’emergenza assoluta, perché eravamo a un passo dal baratro…
Io rovescerei la cosa: finalmente si ragiona in termini politici. La politica tiene conto dei cambiamenti. Invece di parlare di emergenze e baratri, metterei in luce proprio questo risultato: una politica in grado di partire dalla realtà, e quindi disponibile a cambiare, è ancora politica. L’uomo intelligente cambia idea. I partiti, stavolta, lo hanno fatto.
E sul metodo con cui ci si è arrivati? Finalmente è ripreso un dialogo che negli ultimi tempi cercavano in pochi, si è tornati a guardare all’altro non come a un nemico da abbattere…
È il cuore della democrazia. Soprattutto in un Paese come l’Italia. Qui le ideologie erano ancora più violente tra il 1946 e il ’48. Ma questo non ci ha impedito di arrivare a fare una Costituzione comune e di avere anni di benessere condiviso nonostante ci fossero i due blocchi. C’è chi questo metodo non lo condivide e pensa che si possa mandare avanti un Paese non riconoscendo all’altro il diritto di esistere. In tutte le democrazie avanzate l’alternativa è considerata fondamentale: democratici e repubblicani negli Usa, laburisti e conservatori in Gran Bretagna, Spd e Cdu in Germania… Tutti questi Paesi hanno un’alternativa politica cui è ampiamente riconosciuto il diritto di esistere e di governare. È un punto decisivo. Fare il contrario non è per il bene comune. Anche perché molte soluzioni, soprattutto in momenti di questo tipo, devono essere condivise. Basta pensare agli Stati Uniti.
Perché?
Lì in Parlamento gli schieramenti saltano di continuo. Ci sono provvedimenti che sono votati al di là dei partiti di appartenenza. E questo, quando è per un bene condiviso, è solo un fattore positivo. L’ideologizzazione del confronto impedisce un dialogo teso a trovare soluzioni ai problemi reali, mentre tutto quello che va in questa direzione è fondamentale. Il punto di partenza è sempre la realtà, non può essere altro. E la realtà dice che questo è un momento fondativo dell’Italia, non è un momento di normale dialettica. Anche perché è la prima volta dal Dopoguerra che rischiamo davvero di finire in serie B. Non è un problema di egemonia, di chi ha il potere: qui ne va di mezzo la perdita del benessere di tutti. E questo deve interrogare chiunque.[qui il grassetto è mio perché condivido in pieno]
A proposito di «momento fondativo»: ha colpito molti che Napolitano abbia ricordato il suo intervento al Meeting di Rimini, due anni fa. Lo ha citato come un momento in cui richiamava «l’impegno a trasmettere piena coscienza di quel che l’Italia e gli italiani hanno mostrato di essere in periodi cruciali del loro passato». Che cosa ne pensi?
È un fatto oggettivo. Napolitano scelse quel luogo per fare un discorso che in qualche modo inaugurasse una nuova fase di collaborazione. In un periodo come il 2011, che era drammatico come questo – perché il nostro debito pubblico stava esplodendo e la nostra credibilità era al minimo, alla faccia di chi dice che lo spread non conta… -, lui ha aperto un percorso. E lo ha fatto lì. Quando lo ricorda nel suo discorso per il nuovo giuramento, lo fa per appellarsi ad una concordia di fondo del popolo italiano. La nostra storia ci dice che chiunque, negli anni, abbia tentato di spaccare questa concordia, ha distrutto l’Italia.
Lui ha rischiato anche in termini di testimonianza personale, accettando il sacrificio di tornare in gioco a 87 anni. Lo ha ricordato anche il Papa, nella telefonata che gli ha fatto: «Lei è un esempio per me, perché con il suo comportamento ha reso vivo il principio fondamentale della convivenza: che l’unità è superiore al conflitto». Che responsabilità indica un fatto del genere per ciascuno di noi?
Due cose. Primo: che ciò a cui siamo chiamati quotidianamente non può essere vissuto in modo corporativo. Deve essere vissuto per il proprio cuore e per il bene comune, che è una cosa diversa dal particulare alla Guicciardini. Secondo: che questo desiderio di vivere in un mondo istituzionalmente pluralista e anche multietnico è una questione fondamentale per lo sviluppo. Chi non ha un’identità, è chiuso. Chi ha un’identità, accetta il pluralismo come elemento essenziale per crescere.
E che ruolo possono avere i cattolici? Qualcuno si è già rimesso col bilancino a pesare la distribuzione dei ministeri…
Il problema dei cattolici non è cercare un’egemonia, come abbiamo già detto tante volte, ma mettersi insieme a chiunque ha buona volontà per costruire il bene comune a partire dall’esperienza che si fa e che può essere una cosa condivisa da altri. Chi fa politica, anche in partiti diversi, si connota per quello che fa lì dentro, non per l’etichetta o la corrente. È un aspetto che fa parte del gioco democratico.
Un giudizio sui ministri?
Io non sono automaticamente a favore di facce nuove. Ma è da apprezzare il tentativo di impostare una fase nuova con gente che non ha vissuto le contrapposizioni precedenti, o le ha vissute solo in parte, e quindi è più capace di questa collaborazione. È una scommessa interessante. Poi, va incontro a un’esigenza evidente di ricambio generazionale. All’estero, un Tony Blair o un José Maria Aznar, finita la loro fase, hanno permesso un ricambio anche se erano ancora in auge e avevano cinquant’anni. Che in Italia non succeda mai è un fattore che aumenta il tasso ideologico del confronto. A me pare indispensabile che emerga una generazione capace di accettare di nuovo, come i costituenti, l’esistenza dell’altro come un fattore fondamentale per la democrazia.
E su Letta?
In questi anni è tra coloro che hanno tenuto di più la barra sulla collaborazione e sulla competenza. Sarà un buon premier.
Quali sono i primi provvedimenti che ti aspetti dal Governo?
Due cose. Riforme istituzionali, quali quella elettorale, quella sull’assetto del Parlamento, sull’attuazione del federalismo. E la spinta a uno sviluppo economico che parta dalla valorizzazione delle forze che ci sono nel Paese: sono enormi, ma bloccate. Non è che bisogna dar vita allo sviluppo: bisogna aiutare quello che c’è. Che, grazie a Dio, è tanto.