«Meno male. Perché siamo come nel 1946: c’è un Paese da far ripartire».

Leggo solo ora dal web perché Tracce mi arriva sempre in ritardo, ma mi pare interessante, anche se non attualissimo, il giudizio di Vittadini sul nuovo governo che comunica le sue decisioni quando le ha già prese e in modo discreto , come fanno tutto coloro che cercano di lavorare seriamente pur in mezzo alla tempesta di un mare di difficoltà non ignorate:

(…)

l’impressione di Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, è netta: «Meno male. Perché siamo come nel 1946: c’è un Paese da far ripartire».

Che giudizio hai su questa soluzione?
Va incontro all’urgenza più grande che abbiamo: far ripartire il lavoro della politica, cioè il servizio del bene comune. È la risposta alla necessità di ricominciare a mettere mano ai bisogni del Paese. Se la politica ha un suo senso, è a partire da qui. Dal bisogno di dare una guida all’Italia sul piano istituzionale e su quello economico. In un momento come questo, inevitabilmente, la collaborazione iniziata spingerà verso il superamento delle ideologie. 

Appunto, «inevitabilmente»: l’impressione è che ci siamo arrivati per un’emergenza assoluta, perché eravamo a un passo dal baratro…
Io rovescerei la cosa: finalmente si ragiona in termini politici. La politica tiene conto dei cambiamenti. Invece di parlare di emergenze e baratri, metterei in luce proprio questo risultato: una politica in grado di partire dalla realtà, e quindi disponibile a cambiare, è ancora politica. L’uomo intelligente cambia idea. I partiti, stavolta, lo hanno fatto.

E sul metodo con cui ci si è arrivati? Finalmente è ripreso un dialogo che negli ultimi tempi cercavano in pochi, si è tornati a guardare all’altro non come a un nemico da abbattere…
È il cuore della democrazia. Soprattutto in un Paese come l’Italia. Qui le ideologie erano ancora più violente tra il 1946 e il ’48. Ma questo non ci ha impedito di arrivare a fare una Costituzione comune e di avere anni di benessere condiviso nonostante ci fossero i due blocchi. C’è chi questo metodo non lo condivide e pensa che si possa mandare avanti un Paese non riconoscendo all’altro il diritto di esistere. In tutte le democrazie avanzate l’alternativa è considerata fondamentale: democratici e repubblicani negli Usa, laburisti e conservatori in Gran Bretagna, Spd e Cdu in Germania… Tutti questi Paesi hanno un’alternativa politica cui è ampiamente riconosciuto il diritto di esistere e di governare. È un punto decisivo. Fare il contrario non è per il bene comune. Anche perché molte soluzioni, soprattutto in momenti di questo tipo, devono essere condivise. Basta pensare agli Stati Uniti. 

Perché?
Lì in Parlamento gli schieramenti saltano di continuo. Ci sono provvedimenti che sono votati al di là dei partiti di appartenenza. E questo, quando è per un bene condiviso, è solo un fattore positivo. L’ideologizzazione del confronto impedisce un dialogo teso a trovare soluzioni ai problemi reali, mentre tutto quello che va in questa direzione è fondamentale. Il punto di partenza è sempre la realtà, non può essere altro. E la realtà dice che questo è un momento fondativo dell’Italia, non è un momento di normale dialettica. Anche perché è la prima volta dal Dopoguerra che rischiamo davvero di finire in serie B. Non è un problema di egemonia, di chi ha il potere: qui ne va di mezzo la perdita del benessere di tutti. E questo deve interrogare chiunque.[qui il grassetto è mio perché condivido in pieno]

A proposito di «momento fondativo»: ha colpito molti che Napolitano abbia ricordato il suo intervento al Meeting di Rimini, due anni fa. Lo ha citato come un momento in cui richiamava «l’impegno a trasmettere piena coscienza di quel che l’Italia e gli italiani hanno mostrato di essere in periodi cruciali del loro passato». Che cosa ne pensi?
È un fatto oggettivo. Napolitano scelse quel luogo per fare un discorso che in qualche modo inaugurasse una nuova fase di collaborazione. In un periodo come il 2011, che era drammatico come questo – perché il nostro debito pubblico stava esplodendo e la nostra credibilità era al minimo, alla faccia di chi dice che lo spread non conta… -, lui ha aperto un percorso. E lo ha fatto lì. Quando lo ricorda nel suo discorso per il nuovo giuramento, lo fa per appellarsi ad una concordia di fondo del popolo italiano. La nostra storia ci dice che chiunque, negli anni, abbia tentato di spaccare questa concordia, ha distrutto l’Italia.

Lui ha rischiato anche in termini di testimonianza personale, accettando il sacrificio di tornare in gioco a 87 anni. Lo ha ricordato anche il Papa, nella telefonata che gli ha fatto: «Lei è un esempio per me, perché con il suo comportamento ha reso vivo il principio fondamentale della convivenza: che l’unità è superiore al conflitto». Che responsabilità indica un fatto del genere per ciascuno di noi?
Due cose. Primo: che ciò a cui siamo chiamati quotidianamente non può essere vissuto in modo corporativo. Deve essere vissuto per il proprio cuore e per il bene comune, che è una cosa diversa dal particulare alla Guicciardini. Secondo: che questo desiderio di vivere in un mondo istituzionalmente pluralista e anche multietnico è una questione fondamentale per lo sviluppo. Chi non ha un’identità, è chiuso. Chi ha un’identità, accetta il pluralismo come elemento essenziale per crescere.

E che ruolo possono avere i cattolici? Qualcuno si è già rimesso col bilancino a pesare la distribuzione dei ministeri…
Il problema dei cattolici non è cercare un’egemonia, come abbiamo già detto tante volte, ma mettersi insieme a chiunque ha buona volontà per costruire il bene comune a partire dall’esperienza che si fa e che può essere una cosa condivisa da altri. Chi fa politica, anche in partiti diversi, si connota per quello che fa lì dentro, non per l’etichetta o la corrente. È un aspetto che fa parte del gioco democratico.

Un giudizio sui ministri?
Io non sono automaticamente a favore di facce nuove. Ma è da apprezzare il tentativo di impostare una fase nuova con gente che non ha vissuto le contrapposizioni precedenti, o le ha vissute solo in parte, e quindi è più capace di questa collaborazione. È una scommessa interessante. Poi, va incontro a un’esigenza evidente di ricambio generazionale. All’estero, un Tony Blair o un José Maria Aznar, finita la loro fase, hanno permesso un ricambio anche se erano ancora in auge e avevano cinquant’anni. Che in Italia non succeda mai è un fattore che aumenta il tasso ideologico del confronto. A me pare indispensabile che emerga una generazione capace di accettare di nuovo, come i costituenti, l’esistenza dell’altro come un fattore fondamentale per la democrazia.

E su Letta?
In questi anni è tra coloro che hanno tenuto di più la barra sulla collaborazione e sulla competenza. Sarà un buon premier.

Quali sono i primi provvedimenti che ti aspetti dal Governo? 
Due cose. Riforme istituzionali, quali quella elettorale, quella sull’assetto del Parlamento, sull’attuazione del federalismo. E la spinta a uno sviluppo economico che parta dalla valorizzazione delle forze che ci sono nel Paese: sono enormi, ma bloccate. Non è che bisogna dar vita allo sviluppo: bisogna aiutare quello che c’è. Che, grazie a Dio, è tanto.

Crescita: via tutti i lacci e si può ripartire

Vittadini: crescita, via tutti i lacci e si può partire

L’intervista sul Corriere della Sera

pubblicato il 30 agosto 2012

immagine documentodi M. Antonietta Calabrò
“Il nostro Paese è come i Prigioni di Michelangelo, quelle opere in cui una forza straordinaria cerca di uscire dall’interno del marmo, ma è come imbrigliata nella stessa materia, legata da funi e da corde, e per questo non riesce ad esprimersi”. Il professore Giorgio Vittadini, fondatore della Compagnia delle Opere, ordinario di Statistica economica all’Università di Milano, e presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, concorda completamente con l’analisi fatta ieri nell’articolo sul Corriere da Angelo Panebianco.
In che senso?
Panebianco ha il pregio di mostrare chiaramente due concezioni diametralmente opposte di quello che si può fare per ‘sbloccare ‘il Paese. La prima è associata all’idea di una ‘politica economica’ centralizzata e più o meno fortemente ‘diretta’ dall’alto verso il basso, dal centro verso la periferia.
E la seconda?
Invece, è quella che sostiene che è compito della società civile, degli imprenditori, realizzare la crescita, mentre il governo deve innanzitutto rimuovere gli ostacoli, le funi ai Prigioni, se mi consente di usare il paragone. Ma effettivamente: e anche il premier Monti ne è rimasto impressionato, durante la sua presenza al Meeting di Rimini, di quanta forza e potenzialità di crescita, c’è nel nostro Paese.
Per crescere il governo intende puntare anche su scuola e università…
Anche qui bisogna mettere al lavoro idee nuove. Ad esempio per quanto riguarda le università non c’è vera autonomia oggi negli atenei. All’estero le università si fanno concorrenza. Le tasse sono alte, ma le borse di studio sono addirittura più alte delle tasse. Ecco: così si premiano i capaci e meritevoli, come chiede anche la nostra Costituzione.
In Italia apparentemente c’è egualitarismo. Ma poi le indagini postlaurea dimostrano che dopo cinque anni dal conseguimento del diploma, hanno trovato un’occupazione gli studenti che provengono dalle classi sociali medio alte. Mentre l’abbandono scolastico sfiora i duecentomila studenti. Come diceva don Milani fare parti uguali tra disuguali è la peggiore ingiustizia.
Per il lavoro?
Bisogna distinguere nettamente tra precariato e flessibilità.
Qual è in generale la sua ricetta?
Direi liberare energie, togliere le funi: il paese è vitale, i giovani sono vitali. Lo dimostrano successi a centinaia. Pensi a Grom, l’azienda di gelati che è potuta partire grazie a un piccolissimo finanziamento pubblico e che adesso è un caso di successo economico da manuale. Insomma i Prigioni non aspettano altro che essere liberati. [link]
L’editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere

“Sarebbe meglio smetterla con il refrain dell’antipolitica…”

Da Tracce  il contributo di Giorgio Vittadini:

«La scommessa sull’io, vera svolta liberale»

5/05/2012 – I risultati delle amministrative, il «refrain dell’antipolitica». Il Presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, guarda alla situazione italiana: «Non ci sarà una svolta senza un cambiamento radicale nell’uomo»

  • Giorgio Vittadini.Giorgio Vittadini.

Al netto di tutte le considerazioni contingenti che hanno riempito le cronache politiche e fantapolitiche, va detto che il risultato elettorale è innanzitutto esito di un’enorme delusione. Sarebbe meglio smetterla con il refrain dell’antipolitica: piuttosto, quel che è avvenuto, così come il clima che si respira, nascono dall’illusione che sia la politica a salvarci, quella di chi ci ha governato fin qui o quella di chi pretende oggi di contestare tutto.

Nelle ultime elezioni politiche del 2008 Silvio Berlusconi e la sua coalizione avevano ottenuto una maggioranza quasi mai raggiunta da altri schieramenti. Gli italiani non ne potevano più di anni grigi di statalismo soffocante e ci si aspettava (finalmente!) una svolta liberale, assente in Italia dai primi anni del Dopoguerra quando tutti, Stato e privato, maggioranza e opposizione, nonostante le divisioni ideologiche, avevano collaborato per la ricostruzione e il boom economico. Ci si aspettava un’inversione di tendenza dopo l’orgia collettiva degli anni Ottanta, in cui, con la responsabilità di tutti, si era pensato di poter risolvere definitivamente i problemi sociali degli italiani dilatando a dismisura la spesa pubblica (portando il debito pubblico dal 60% al 120% del Pil)

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BAGNASCO/Vittadini: educarsi al possesso più vero

Da Il Sussidiario  un contributo di G. Vittadini

Il Card. Bagnasco durante la prolusione di lunedì scprso (foto Ansa)Il momento attuale sembra dominato dalla lotta tra poteri ingigantita da casse di risonanza mediatiche che distorcono i contorni e le proporzioni delle cose nel contesto dei problemi reali del nostro Paese. 

Come ha sostenuto il cardinale Angelo Bagnasco, al recente Consiglio Episcopale Permanente della Cei, stiamo assistendo a una “convulsa fase che vede miscelarsi in modo sempre più minaccioso la debolezza etica con la fibrillazione politica e istituzionale, per la quale i poteri non solo si guardano con diffidenza ma si tendono tranelli, in una logica conflittuale che perdura ormai da troppi anni. Si moltiplicano notizie che riferiscono di comportamenti contrari al pubblico decoro e si esibiscono squarci – veri o presunti – di stili non compatibili con la sobrietà e la correttezza, mentre qualcuno si chiede a che cosa sia dovuta l’ingente mole di strumenti di indagine”. 

Per ciò che concerne la giustizia, i magistrati battono il chiodo dell’“obbligatorietà dell’azione penale” verso il premier, ma la priorità data al bene comune dovrebbe far preoccupare maggiormente del fatto che sicurezza della pena e tempi equi dei processi non sono garantiti allo stesso modo per tutti. Ad esempio, che ne è di quei debitori morosi responsabili del fallimento di tanti imprenditori (e perdita di lavoro dei loro dipendenti) che devono aspettare anni perché i loro diritti vengano riconosciuti? 

Oppure, che ne è di chi ha rovinato la vita di tante persone continuando impunemente a pubblicare notizie secretate, calunniando in trasmissioni televisive o articoli di giornale persone poi rivelatesi innocenti? O, ancora, perché tante inchieste sembrano essere andate a velocità diversa a seconda del colore politico dell’imputato? Lasciare che tante risorse umane e materiali siano destinate a poche inchieste orientate politicamente, come nel caso Why Not, è come decidere che la sanità pubblica venga concentrata su grandi trapianti per poche persone e trascuri le altre. Il tutto in perfetta apparente legalità, visto che ciò avviene semplicemente decidendo di aprire un procedimento invece che l’altro…

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"Il clientelismo nel lavoro si batte con più sussidiarietà"

Anche se risale al 10/04/2010, mi pare utile questo contributo di G. Vittadini pubblicato da M. Lupi:

Nella Prima Repubblica certi politici potenti trovavano lavoro in cambio del fatto che le persone aiutate li avrebbero votati e sarebbero stati a loro disposizione per i più svariati servigi (manifestazioni di massa, iscrizioni al partito, sostegno attivo in campagna elettorale…). Questo fenomeno, a cui è stato il nome di clientelismo, è definitivamente scomparso? Il dubbio rimane di fronte a quanto si fa ancora in certe Regioni e in certi apparati dello Stato per attuare le direttive di certi economisti à la page.
Questi maîtres à penser, ospiti fissi dei più popolari talk show, editorialisti di punta dei più progressisti giornali, teorizzano che nel mercato del lavoro bisogna operare solo con strumenti di politica passiva attribuendo un salario minimo garantito ai disoccupati e, per il resto, credere nella capacità taumaturgica dei mercati di assorbire nel medio e lungo periodo la disoccupazione, evitando qualunque intervento di politica attiva.
 
L'esito delle loro direttive è evidente nei settori e nelle Regioni dove è stato attuato: un nuovo clientelismo di Stato, con assunzioni dell'ente pubblico a tempo determinato o indeterminato nei settori più disparati, dalla sanità alle foreste, che però non si impegna per creare lavoro reale e stabile e con effetti disastrosi per il bilancio dello Stato; un asservimento di questi lavoratori ai politici che lo attuano, non diverso da quello della Prima Repubblica; un incentivo alla passività del lavoratore che tende a non cercare un nuovo lavoro vero, o addirittura si oppone a interventi per il ricollocamento in altri settori se ha il sussidio di disoccupazione senza vincoli di formazione o limiti temporali; un indiretto favoreggiamento del lavoro nero per coloro che con il sussidio di disoccupazione decidono di arrotondare senza perdere il sussidio.

Per fortuna i consigli dei nuovi soloni dell'economia sono stati attuati solo in parte e in Italia si è scelta, a livello nazionale e in molte Regioni, una via opposta: quella delle politiche attive per il lavoro contenute nella legge Biagi (colpevolmente ignorata da certi leader politici che l’hanno irragionevolmente equiparata ad un incentivo al lavoro nero); e quella di nuove misure che potrebbero divenire norme se venisse attuato il Libro Bianco sul futuro del modello sociale presentato nel 2009 dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e realizzato in accordo con la parte dell’opposizione che fa riferimento alle posizioni sul mercato del lavoro di Tiziano Treu o di Enrico Letta.

Non si sta certo proponendo di eliminare le politiche passive sul lavoro, fondamentali per tutelare le persone più in difficoltà, ma di riconoscere che in un mercato del lavoro come quello italiano, così complesso e segmentato territorialmente, settorialmente, per posizione professionale e per qualifica, sono fondamentali strumenti come un collocamento più moderno che favorisca l'incontro tra domanda e offerta con strumenti informativi più liberi e capillari; una formazione professionale obbligatoria ai disoccupati per un nuovo collocamento; il sostegno a forme nuove di contratto di lavoro quale il lavoro part-time orizzontale e verticale, il lavoro interinale, i contratti a progetto; una legislazione che favorisca la presenza nel mercato del lavoro, accanto a realtà di diritto pubblico, di realtà di diritto privato, in particolare non profit; l’incentivo alla libertà di scelta formativa dei lavoratori, come quello attuato in Lombardia con strumenti come la dote.

Anche perché le capacità taumaturgiche del mercato di assorbire tutta la disoccupazione, semplicemente non esistono, come dimostra il fatto che ormai esistono due mercati del lavoro anche nelle Regioni più sviluppate: il primo, quello delle persone per cui vale lo slogan “dal posto al percorso”, in grado di muoversi autonomamente tra diverse possibilità di lavoro; l'altro, quello delle persone più “deboli”, tra cui molti giovani, coloro che vengono espulsi dal mercato del lavoro a 50 anni, coloro che hanno un handicap fisico o mentale, coloro che non hanno una sufficiente istruzione o formazione professionale, coloro che vivono in Regioni in difficili condizioni economiche, coloro che hanno condizioni familiari particolarmente impegnative che li penalizza sul lavoro.

 Queste persone rischiano di non entrare mai nel mercato del lavoro in modo sicuro, o di uscirne definitivamente e comunque non saranno mai salvati da un sistema lasciato senza regole. Se si vuole continuare a pensare anche a loro, invece di concentrarsi sulla difesa dei privilegi dei lavoratori di serie A – non giustificati dalla loro produttività o da cause sociali – occorre flessibilità, immaginazione, volontà di graduare interventi diversi per situazione diverse: tutto ciò che gli economisti di certi talk show chiamano “precariato” semplicemente perché ignorano quella realtà che vive fuori dai salotti radical chick dove vivono. Mentre loro discutono, chi può continui a lavorare possibilmente ignorandoli.

Vittadini: La politica che si avvicina ai cittadini

  Da IlSussidiario un articolo di Giorgio Vittadini :

Le elezioni regionali, paradossalmente più che le politiche e le europee, riguardano questioni cruciali che toccano la concretezza della vita personale e sociale del nostro Paese. Sembrerebbe però che anche questa campagna elettorale finirà nel vortice delle contrapposizioni frontali di una politica ridotta a scontro di potere fra schieramenti. Dovremmo allora rassegnarci a vivere questo momento senza vedere messi in discussione contenuti tanto importanti?

Eppure, il recente trattato di Lisbona, che disegnerà nei prossimi decenni la vita della Comunità Europea, e il processo federalista avviato nel nostro Paese – per quanto confuso e incompiuto – stanno già attribuendo competenze maggiori alle Regioni, rendendo il loro operato sempre più cruciale per la vita quotidiana dei cittadini italiani. 

La principale area di intervento e voce di spesa delle Regioni è la sanità. Questo dato statistico diventa drammaticamente importante quando si hanno problemi di salute, o ne vengono interessati i nostri cari: è ben diverso sapere che l’ospedale a cui ci si rivolge ha raggiunto una buona efficacia nella cura della patologia di cui si è affetti, lo fa senza spreco di denaro pubblico (a danno dell’erario e quindi di ogni contribuente) e, nello stesso tempo, senza lesinare le cure ai meno abbienti.

Tuttavia, non sono solo le patologie acute a caratterizzare il nostro bisogno di salute: l'aumento dell'aspettativa di vita fa sì che siano in aumento le patologie croniche non coperte dal Servizio Sanitario Nazionale. La qualità della vita familiare è molto diversa se si è in Regioni capaci di dare risposte adeguate, attraverso strutture o attraverso assistenza domiciliare, nella cura di tali patologie o nell’affronto di problemi di disabilità. 

E ancora, a proposito di un altro ambito di intervento proprio delle Regioni, c’è una bella differenza fra sistemi di formazione professionale che usano le risorse per mantenere dipendenti pubblici, senza essere capaci di dare una vera qualificazione professionale, e strutture, magari del privato sociale, in grado di recuperare, attraverso l'istruzione professionale, ragazzi espulsi dalla scuola o che stanno accumulando ripetuti insuccessi scolastici

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Gente che non sta al guinzaglio

Un articolo di Vittadini per  Il Sussidiario: 

In un periodo in cui dominano gossip e scandali, sembra particolarmente arduo anche veder descritta con realismo la vita delle realtà sociali e il loro rapporto con il mondo pubblico. L’Italia è purtroppo ancora vittima dei famigerati cinquant’anni successivi alla sua raggiunta unità, in cui l’ideologia massonica e laicista ha cercato di stravolgere una tradizione italiana dove vigeva una mentalità “sussidiaria” capace di valorizzare l’iniziativa diffusa e operosa della gente e dei corpi sociali.

Esponente di spicco di questa ideologia fu Crispi che nel 1891 giustificò l’espropriazione dei beni ecclesiastici teorizzando il diritto dello Stato di avere il monopolio dell’assistenza ai cittadini. Nessuno disconosce il valore dello stato sociale, i livelli minimi garantiti di assistenza e l’universalità dei servizi ma, come acutamente afferma Pierpaolo Donati, ciò ha significato «rendere irrilevanti le relazioni fra i consociati, sminuire l’importanza delle comunità e formazioni sociali intermedie, anche come soggetti di cittadinanza, limitare il pluralismo sociale, in sintesi svalutare la socialità della persona umana, anche e precisamente come elemento costitutivo del welfare»: è l’avvento dello Stato hobbesiano nel mondo del welfare. 

Oggi, quella mentalità da Italietta post risorgimentale continua nello statalismo di una certa destra, in parte del mondo di sinistra svincolato dalla sua tradizione popolare e sociale e in un certo mondo cattolico senza identità e perciò succube della mentalità dominante. Così, in questi ben individuabili ambienti ha continuato a dominare l’idea che qualunque intervento del privato e del privato sociale nell’assistenza, nella sanità, nell’educazione, nel tempo libero sia portatore di interessi particolari in contrasto con il bene comune. 

Non si capisce che ci possa essere un pubblico non statale, una capacità di dare un apporto al bene comune anche quando, sotto il profilo giuridico, si appartenga al diritto privato. Misconoscendo la realtà storica e il valore del principio costituzionale della sussidiarietà (art. 118), non si vuole ammettere che esistono ideali della persona che possono essere al servizio di tutti, in quella dimensione di gratuità e di dono sottolineata dall’Enciclica Caritas in Veritate.

Eppure il nostro Paese è popolato di opere sociali di origine religiosa e laica, di centri di formazione professionale, vecchi e nuovi, nati dal privato sociale, di realtà sportive, di associazioni a difesa della natura che nessun ente pubblico saprebbe mai far nascere. Non si vuole ammettere che il desiderio di verità, giustizia, bellezza educato da movimenti ideali, attraverso la costruzione di opere sia in grado di perseguire, almeno insieme allo Stato, il bene comune. Sembra che ci si sia dimenticati della battaglia per l’autonomia delle fondazioni di origine bancaria: realtà di diritto privato che la Corte costituzionale, nelle sentenze nn. 300 e 301 del 2003, ascrive tra «i soggetti dell’organizzazione delle libertà sociali».

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Vittadini: no ai Torquemada, il premier governi

Intervista a Giorgio Vittadini segnalata da Il Sussidiario:

Cominciamo dalla coerenza, professore: se uno sostiene come Berlusconi il Family Day, dal punto di vista cristiano non dovrebbe vivere di conseguenza?
«Vede, io credo molto nel peccato originale e me lo sento addosso. E questo riguarda tutti: chi è senza peccato, scagli la prima pietra. Si figuri se mi metto a giudicare come fossi un Torquemada il comportamento morale degli altri». Giorgio Vittadini, fondatore della Compagnia delle Opere ed oggi presidente della Fondazione per la sussidiarietà, non si scompone: «Ci sono altri ordini di giudizio, e per fortuna un cristiano lo sa». 

Il Pdl e il governo, però, si accreditano come difensori dei valori cattolici. Una parte consistente del mondo cattolico li ha sostenuti. Secondo lei, professore, le polemiche sul caso Noemi e i comportamenti privati del premier cambiano qualcosa nel giudizio sul governo?
«Non possiamo fare una questione politica di fatti specifici, dallo svolgimento dubbio, costruiti attraverso inchieste giornalistiche, quasi si volesse dare loro un valore giudiziario. I fatti da appurare sarebbero infiniti e si ricreerebbe quel tipo di sospetto generalizzato di cui abbiamo sofferto nel dopo Tangentopoli». 

Ma la questione morale?
«La questione morale è una tensione al vero, non soltanto una coerenza. In questo senso ricordo che nell’87, ad Assago, Don Giussani spiegò che la questione morale generale nasce dall’appiattimento del desiderio dei giovani e nel cinismo degli adulti. Astenia e mancanza di desiderio: questa è la questione che genera tutte le questioni morali. Hanno ragione i vescovi a porla all’interno dell’emergenza educativa. Se vogliamo parlare di moralità della politica partiamo da qui, dall’emergenza educativa, sennò ci prendiamo in giro». 

Va bene, ma qui c’è un caso specifico…
«I vescovi hanno detto che oggi come ieri, in Italia, di questioni morali ce ne sono tante, ed è giusto tenerle vive tutte. Hanno aggiunto "Ognuno ha la propria coscienza, la propria capacità di giudizio". Sono d’accordo E aggiungo che la esprimerà nelle prossime elezioni, se vuole». 

In che senso?
«Nel senso che la prossima volta farà quello che vuole. Ma adesso c’è un governo in azione che deve rispondere dei suoi atti, abbiamo problemi gravi da affrontare. E chi ha votato, cattolico o no, ha il diritto di avere un governo che governi, senza altre interferenze». 

Berlusconi rischia di essere danneggiato nell’elettorato cattolico?
«Don Giussani affrontò il tema dei cristiani e del governo in un’intervista del ’96: spiegava che l’essenziale è la devozione sincera al bene comune e la competenza reale adeguata. Su questo giudica un cristiano. Io valuto un governo sul fatto che tuteli la dignità della persona, favorisca la sussidiarietà come welfare partecipato dalla gente, sviluppi la libertà di educazione e così via. Se è così, bene. Dopodiché risponderà del suo comportamento davanti a Dio, se ci crede». 

Il professor Paolo Prodi diceva: Berlusconi difensore dei valori cattolici? Ci vorrebbe un po’ di pudore…
«Vede, io sono per una visione laica della politica. Non mi pongo il problema Berlusconi e valori cattolici. Mi chiedo: che cosa ha fatto di positivo? E penso tra l’altro al libro bianco, alla politica estera, alla gestione delle emergenze come in Abruzzo, alla tutela della vita. Punto. In questa faccenda ho l’impressione che si voglia riesumare una sorta di clericalismo dal punto di vista degli anticlericali». 
(Il Corriere della Sera, 28 maggio 2009)

Leggi anche:

Mons. Fisichella: l’autentica questione morale è una proposta vera per le nuove generazioni

 

“Difendere la libertà, sostenere la responsabilità”

Un amico ha sbobinato l’intervento di Vittadini del 18 maggio al Palasport di Milano e , ovviamente,  l’intervento non è stato rivisto dall’autore, ma per chi non ha potuto sentire la diretta o il video, ecco cosa è stato detto:

Palasharp di Milano, 18 maggio 2009

Intervento di:

Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà

Che nesso ha quello che abbiamo detto finora con il voto di Mauro e con le elezioni europee? Secondo me, se non riusciamo a capire esistenzialmente che cosa c’entra possiamo fare un gesto un po’ distratti, senza verve e quindi anche l’effetto non sarà grande.
Io quando penso alla politica non posso dimenticarmi, lo ripeto sempre, il percorso di metodo che ha fatto Giussani ventidue anni fa ad Assago a quel congresso della DC parlando delle necessità politiche, sociali o delle imprese. E’ partito dall’esperienza elementare. E’ partito dal fatto che ognuno di noi è fatto, come abbiamo sentito tante volte, di esigenze ed evidenze strutturali che costituiscono la natura di ogni uomo: il suo desiderio di verità, giustizia, bellezza, felicità e amore. Questa è la questione fondamentale, perché si può parlare di valori o di diritto naturale, ma se uno non sente questo se ne frega del diritto naturale, del diritto alla vita e di tutto. Se uno non sente questo se ne frega dello sviluppo e fa i cavoli suoi, se ne frega del bene comune, se ne frega della cittadinanza, se ne frega delle elezioni europee. D’altra parte l’Irlanda quando ha fatto i soldi ha smesso di essere cristiana. E la Polonia quando ha iniziato ad esser libera ha cominciato ad essere meno cristiana. Quindi capite che se si perde l’esperienza elementare, si può anche diventare ricchi ma si diventa anche cretini, il che non è il massimo della vita.
Allora questo è il problema, perché per don Giussani lo sviluppo, lo stesso sviluppo economico, è radicato in questo. Lui parla del desiderio come la radice dell’azione economica, sociale e politica dell’uomo in quella famosa frase che dice: “Il desiderio è come la scintilla con cui si accende il motore. Tutte le mosse umane nascono da questo fenomeno, da questo dinamismo costitutivo dell’uomo. Il desiderio accende il motore dell’uomo, che allora si mette a cercare il pane, l’acqua, il lavoro, la donna, una poltrona più comoda, un orologio più decente, si interessa come mai taluni hanno e altri non hanno, come mai certi sono trattati in un modo e lui no, proprio in forza dell’ingrandirsi, del dilatarsi, del maturarsi di questo stimolo che ha dentro, che la Bibbia chiama globalmente cuore”.
Se non si ha desiderio, quando c’è la crisi si vuole l’aiuto dello Stato, quando c’è la difficoltà si vuole qualcuno che venga a tutelarci. Non si ha il coraggio di tirar su le maniche e di fare, come si è fatto in tutta Europa dopo il crollo della guerra: cominciare a rimboccarsi le maniche e lavorare. Mettersi insieme come è nata l’Europa è stato un miracolo: sei paesi che si sono scannati a vicenda che si sono messi insieme, non è mai successo nella storia del mondo. Dopo pochi anni è nata l’Unione del carbone e dell’acciaio. Si sono messi insieme dei popoli che si erano ammazzati perché questo desiderio e quello che questo desiderio porta, il riconoscimento della presenza cristiana nel mondo, di qualcuno che si è detto Dio e che vive tra noi, questo motivo ha messo insieme i popoli. Senza questo non c’è niente. E noi abbiamo a cuore che ci sia questo, perché altrimenti anche adesso nella crisi ci lamentiamo, come fanno tanti, o riduciamo la crisi a un problema di meccanismo e non a un problema di uomo che si riprende, tira la cinghia, riprende a lavorare, suda, fatica, ma riprende.
Qual è il problema che sottolinea Giussani? Il problema è che non è facile tenere questo desiderio, come in Irlanda, come in Polonia e anche in Italia. Il desiderio vien meno, ci si riduce, si pensa a qualcosa che sia meno dell’infinito: si pensa ai soldi, si pensa a vivere la vita di un amore che non è per tutta la vita, si usa la vita per i propri comodi, si pensa ai soldi non come a un aiuto per aiutare il benessere ma a un motivo di comodo. Si pecca, si fa il peccato che non è una cosa moralistica, è l’idea che si viene meno a questo desiderio.
Cogliendo questo nel Seicento è nata la teoria hobbesiana. È nata l’idea che siccome l’uomo non tiene ci vuole uno stato che ti controlli: ci vuole uno stato di polizia che ti controlli dal punto di vista dell’ordine pubblico e poi ci vuole uno stato che organizzi il benessere. Siccome i ricchi se la prendono con i poveri, ci vuole uno stato che aiuti i poveri. È nata l’idea dello stato moderno, che pian piano ha anche preso l’Unione Europea, che è diventata da quell’ideale iniziale un’enorme burocrazia. Una burocrazia lontana, perché almeno se andate a Roma i palazzi li vedete, ma se andate a Bruxelles non capite neanche i palazzi, non vi fanno neanche entrare, non capite neanche dove vengono fatte le cose, se fate una manifestazione non avete neanche qualcuno davanti a cui manifestare. È un mostro. È il mostro dello statalismo diventato Europa. Più stati ci sono e più diventa statalista. Il suo culmine è stato nell’intervento di Chirac quando attaccò le radici cristiane dell’Europa: l’idea del re Sole, diventato presidente francese, che inneggia allo statalismo come immagine dell’Europa.
Qual è la riposta che dice Giussani rispetto a questo statalismo? I movimenti che educano al desiderio: prima ti fanno vedere questo e quest’altro, ti fanno vedere uomini che il loro desiderio ce l’hanno e quando cadi ti correggono. Ti educano e ti correggono, ti fanno riprendere. È la differenza tra il padre che ti dice “Guarda che è meglio vivere così” e quello che non ti fa uscire di casa fino a 25 anni perché sennò chissà dove vai e non si fida di te.
La concezione che c’è oggi della politica e dell’Europa è uno che non ti fa uscire di casa perché non si fida. La concezione di un movimento è uno che dice: ti sfido ad essere più uomo. E come lo fa? Con opere: tentativi di risposte organiche ai bisogni. C’è la povertà? C’è il Banco Alimentare. C’è la crisi dell’economia? Fai la fiera dell’artigianato. Sei un catanese che arriva a Dublino? Metti su una scuola di inglese a livello mondiale… è un modo dinamico. Pensate che negli anni scorsi hanno cercato di dirci che doveva esserci l’io e lo stato, altrimenti qualsiasi cosa c’era di mezzo, movimenti e opere erano un intrallazzo. Hanno cercato di uccidere la possibilità di redenzione morale di un popolo e di popoli con l’idea della moralità, e continuano a dirlo. Noi invece diciamo: ci vogliono movimenti per tirare su un popolo, un popolo europeo che è nato da queste cose.
Arriviamo all’Europa, arriviamo a Mario Mauro. Un’Europa intelligente dice: “Io voglio tante opere, tanti movimenti, voglio in questo pluralismo che è l’Europa di unità questa capacità di risollevarsi, questo modo di autoriprendersi”. Invece l’unica sussidiarietà riconosciuta è quella di Maastricht, la sussidiarietà verticale per cui l’Europa non decide quando decidono gli stati. Ma l’idea di sussidiarietà orizzontale, cioè di valorizzazione di questo dinamismo che è la nostra forza, che è la forza dell’Europa dei popoli, tende a svanire.
Faccio tre esempi:
1) i diritti fondamentali. Nel ’48 a livello internazionale era stato riconosciuto il fatto che, anche in termini laici, c’erano dei diritti fondamentali dell’uomo: la vita e il rispetto della vita in tutti i suoi fondamenti. Invece quest’Europa è diventata il relativismo, l’idea che non c’è un uomo con una sua esigenza elementare che fonda una concezione di amore alla vita dal concepimento alla nascita. Un tentativo di relativismo che attraverso l’Europa o la Corte europea cerca di arrivare agli stati dall’alto.
2) il welfare di stato. Il ribadire che di fronte al problema della scuola, dell’assistenza o della sanità è lo stato e le organizzazioni sovranazionali che rispondono a questo bisogno, invece di esempi, pensate alla Lombardia, come i voucher, le doti, una sanità libera e la possibilità di autorganizzarsi.
3) l’economia sociale della piccola e media impresa. Se non veniva la crisi in Europa erano già pronti a votare le leggi contro le banche popolari o il no-profit, con l’idea che c’è o lo stato o il liberismo selvaggio di tipo finanziario.
Si potrebbe andare avanti con gli esempi: un’Europa che è egoista verso il resto del mondo. Il motivo per cui emigrano dall’Africa è il neocolonialismo dei paesi europei, che hanno sfruttato l’Africa fino a farli morire e per questo hanno creato i flussi migratori.
Qual è la risposta di fronte a questo? Saremmo utopistici se avessimo un progetto teorico. Anche qui per noi vale l’idea del testimone: gente che in quelle istituzioni dimostri una diversità in atto, quella testimonianza che sembra nulla ma che nel tempo fa il cambiamento dei popoli. Noi crediamo nella testimonianza, anche in politica, nell’esempio, nella modalità con cui le coscienze riprendono secondo tutto questo percorso educativo dall’esperienza elementare.
Questa, secondo me, è un’occasione storica perché abbiamo un candidato che in questi anni è stato un po’ diverso: se ne è andato in giro per il mondo, non nelle grandi capitali del lusso, ma a fare le missioni sui perseguitati e ad andare a vedere i paesi subsahariani o dove i cristiani erano perseguitati. Occuparsi di tanti luoghi dove questa esperienza di base esisteva. Oggi quest’uomo è candidato ufficialmente alla presidenza del Parlamento Europeo. È quindi un’occasione storica, perché che sia candidato uno così vuol dire la possibilità che uno che gioca l’esperienza elementare, che vive la fede si metta al centro di queste istituzioni e sia quindi un esempio che tutti possono vedere. È una cosa per cui vale solo questo per vivere una vita. Vi rendete conto di che occasione storica abbiamo? È un’elezione particolare perché è come se fosse uno che ha questa domanda, questa esigenza, questo desiderio e la può giocare al centro delle istituzioni. Per questo motivo, queste elezioni sono il nesso con i desideri più profondi che abbiamo, con la fede che abbiamo. È una piccola battaglia di Lepanto o sotto le mura di Vienna.
Se crediamo in quel che crediamo, se difendiamo ogni giorno questo desiderio, se vogliamo che queste opere crescano (non le nostre opere), le opere di tutti, il desiderio di tutti, la libertà di tutti allora non possiamo che sperare e forzare che un candidato del genere abbia il massimo del successo. Perché per una volta, al centro delle istituzioni, ci sia uno che vive la politica come vivrebbe la famiglia, il desiderio, la vita sociale e la fede.

Il dibattito Vittadini-Tremonti sulla crisi

Guarda il dibattito Vittadini-Tremonti: la crisi, declino o cambiamento? 
                                                                                                  
Come comportarsi di fronte alla crisi? «Finora ce la siamo cavata meglio degli altri. Per questo il consiglio che mi sento di dare agli italiani è: non cambiate quasi nulla». Questa la risposta del ministro dell’Economia Giulio Tremonti alla domanda di Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, su cosa deve cambiare il nostro paese per uscire dalla crisi, nel corso dell’incontro organizzato dal Centro Culturale di Milano dal titolo “La crisi: inizio del declino o opportunità per il cambiamento?”.

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